La vicenda relativa alla scomparsa della dottoressa Sara Pedri si è rivelata essere solamente la punta dell’iceberg rispetto ad una situazione molto più complessa e negli anni sottaciuta. Le testimonianze che abbiamo sentito nelle scorse settimane si aggiungono all’incredibile mole di denunce che negli ultimi dieci anni sono state portate dai lavoratori del reparto di Ginecologia dell’Ospedale S. Chiara di Trento all’attenzione dell’Azienda Sanitaria e della politica trentina. Ascoltando le voci degli operatori sanitari, pur se camuffate per garantirne l’incolumità ed evitare possibili ritorsioni sul lavoro, diviene evidente come la situazione attuale sia figlia di un sistema di gestione sbagliata del reparto, accentrata solamente sulla competenza e sulla casistica e poco o per nulla riconoscente nei confronti dei meriti dei molti professionisti di buon livello che con grande amore e dedizione prestano il proprio lavoro in esso. Ritengo che non si possa pensare di gestire la sanità trentina basandosi solamente sulle statistiche (durata delle visite e delle operazioni, numero di pazienti visitati ecc.) e che essa non possa essere considerata alla stregua di una catena di montaggio, dove il capo dà gli indirizzi e i sottoposti eseguono gli ordini in condizioni alienanti e di disagio.
Sono dunque evidenti le responsabilità in primis di una Azienda sanitaria troppo attenta alla reputazione e concentrata primariamente sulla produttività ospedaliera e sui DRG sanitari, ma in secondo luogo anche della politica provinciale che pur garantendo all’Apss fondi per oltre un miliardo di euro ogni anno, ha da tempo accettato di essere ridotta alla funzione di bancomat senza esercitare un indirizzo politico – gestionale chiaro nel tentativo di deresponsabilizzarsi e di minimizzare i possibili effetti sulla classe politica.
Sono rimasto molto colpito dagli appunti ritrovati dai Carabinieri nella casa della dottoressa Sara Pedri. Nel carteggio si leggono frasi come “L’esperienza a Trento doveva essere formativa, purtroppo ha generato in me un profondo stato d’ansia, a causa del quale sono completamente bloccata e non posso proseguire”, “non sono nelle condizioni psichiche di continuare”, “Ho sempre detto di sì. Finora i risultati ottenuti sono solo terrore” oppure ancora “è una situazione più grande di me”. Penso che da questa vicenda occorra recuperare un concetto di sanità basato sul lavoro di squadra che non può prescindere dal rispetto umano, sulla meritocrazia e sulla valorizzazione delle competenze del singolo. L’auspicio è che in futuro si attui un modello di sanità più umano e meno aziendale, dove si riesca a garantire – oltre alla salute di cittadini e pazienti – anche il benessere dei lavoratori.
Cons. Claudio Cia
Fratelli d'Italia
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